Aziz Ansari è garbato, delicato e divertente, sia durante le interviste, sia nel corso dei suoi spettacoli one-man-show a teatro che in Master of None.
Lo è quando descrive con il sorriso sulle labbra e la battuta arguta, gli stereotipi razziali che popolano la nostra società, o quando ironizza sula sua stessa famiglia, che tenta inutilmente di inchiodarlo in tradizioni sorpassate e tabù generazionali.
Riesce a essere leggero quando racconta, con la verve da comedian quale è, la generazione Y, quella dei trentenni disillusi e confusi, smarriti nell’horror vacui, con le loro insicurezze e le vite sospese senza un obiettivo.
Con ironia, racconta perfettamente la fragilità di una generazione, ma a differenza di altri, come Donald Glover con Atlanta o Lena Dunham con Girls, lo fa senza prendersi troppo sul serio e senza psicoanalizzare i suoi personaggi.
Lo fa in maniera leggera, appunto. E la sua leggerezza, a volte, diventa poesia.
La seconda stagione di Master of None, è un esempio lampante della poetica di Aziz.
Al centro del suo stile narrativo unico e originale, oltre alle contraddizioni tipiche dei suoi coetanei, troviamo anche uno sguardo lucido sull’America e sulle sue bizzarre incoerenze.
Non c’è critica alcuna nello stile di Aziz, solo un’analisi sagace e ironica.
La dichiarazione d’amore alla sua New York, è evidente in questa stagione più che nella prima.
A differenza di altre serie tv con lo stesso intento, Sex and the City su tutte, Ansari non si limita a descrivere il suo sentimento per la Grande Mela, ma va oltre, e lo unisce a quello che nutre per l’Italia e il buon cibo.
La seconda stagione si apre con un episodio in bianco e nero girato a Modena, tra piatti di pasta fatta in casa e interni dell’Osteria Francescana di Massimo Bottura.
Il richiamo al cinema neorealista italiano è evidente, così come lo è l’omaggio al meraviglioso Ladri di Biciclette di De Sica.
Ma non finisce qui.
Tornato a New York, tra rooftop e locali trendy, Aziz inserisce nella colonna sonora brani italiani degli anni Sessanta, da Più di Te e Se Piangi se Ridi di Mina e Amarsi un po’ di Battisti.
Proprio quest’ultima, dà il titolo a quello che è forse il miglior episodio di tutta la stagione, dedicato alla storia d’amore tra Dev e Francesca (Alessandra Mastronardi).
Un’ora di poesia pura, non i classici 25 minuti da comedy.
Perché in questa stagione, che abbiamo aspettato per due anni, la durata degli episodi non è scandita da un cronometro, ma lascia piena libertà, ad Aziz, di divertirsi più che mai con regia e sceneggiatura.
Il neorealismo della puntata d’apertura, lascia spazio alla evidente e ben riuscita ispirazione alleniana.
Nell’episodio First Date, in cui si prende gioco delle moderne App di appuntamenti e delle relazioni affettive e in cui si diverte col montaggio, e in I Love New York, che ricorda parecchio una scena di Annie Hall, Ansari ricorda incredibilmente un giovane Woody Allen.
La poetica del regista di Manhattan, è evidente nella costruzione di molte scene e nello script degli episodi.
La bravura di Aziz e di Alan Lang, l’altro creatore di Master of None, risiede nel riuscire ad alleggerire gli stereotipi sull’Italia e su New York discostandosene quanto basta per non risultare banali quanto gli ultimi film di Allen.
Il rapporto genitori e figli, l’omosessualità, la religione, la difficoltà a trovare un proprio posto nel mondo: i temi trattati dal giovane autore (classe ’83) di origini indiane, sono attualissimi e forse poco originali al primo sguardo, ma il suo stile unico, li veste di una luce nuova e ce li mostra da un altro punto di vista, più ironico e delicato rispetto quelli cui siamo abituati.
Esperto di tutto e maestro di niente?
Forse Aziz su questo si sbaglia, perché con questa stagione, ha confermato la sua bravura e il suo talento, e Master Of None si può tranquillamente annoverare tra i migliori prodotti originali Netflix.