Era il 1986 quando Spike Lee portò sul grande schermo She’s Gotta Have It, uscito in Italia col titolo di Lola Darling, nome della protagonista – Nola nella versione americana – .
Oggi, dopo 31 anni, il regista premio Oscar, nato ad Atlanta ma cresciuto a Brooklyn, a Fort Green per la precisione, ha riportato alla luce la sua Nola, nell’omonima serie Netflix di 10 episodi, rilasciata pochi giorni fa.
“Vorrei che sapeste che la ragione per cui lo faccio è perché la gente pensa di conoscermi. La verità è che non mi conoscono”
Con questa frase Nola rompeva la quarta parete nel lungometraggio, con questa stessa frase irrompe oggi sul piccolo schermo per presentarsi allo spettatore.
A distanza di trent’anni, il tema principale della serie, è più attuale che mai: Nola tenta disperatamente di fare l’artista a New York, tra modesti lavoretti per sopravvivere in un ambiente maschile ostile alle donne – soprattutto se aspiranti artiste – e nel frattempo rivendica la sua libertà sessuale in tre relazioni complicate, con Jamie, Greer e Mars, i suo tre amanti.
L’uomo di successo separato in caso, il fotografo vanitoso e pieno di sé, l’hipster spiantato che aggiusta biciclette e si veste da rapper.
Tre stereotipi perfetti trent’anni fa e oggi.
DeWanda Wise, la splendida attrice che interpreta Nola, è un ciclone di sensualità ed energia, che tiene la scena da sé nonostante tutti i cliché del caso. Nola è la classica aspirante artista volubile, a suo modo viziata, nonostante la tenacia e la forza di carattere. La sua determinazione ad apparire forte e indipendente non è nulla di nuovo però per gli appassionati di serie: Carrie in Sex and The City prima e Hannah in Girls dopo, hanno già detto tutto quello che Nola tenta disperatamente di comunicare allo spettatore.
Questo è forse l’unico difetto della serie, che brilla indubbiamente per altri pregi. Il fatto che Nola sia una donna afroamericana, non la fa sembrare meno antipatica o a tratti fastidiosa rispetto ai personaggi di Sarah Jessica Parker o di Lena Dunham.
Nonostante ciò, il tipico sentimento di amore-odio, rapisce lo spettatore e lo tiene incollato allo schermo per tutte e dieci le puntate che compongono la prima stagione di She’s Gotta Have It.
I pregi, dicevamo.
Spike Lee, che ha scritto la maggior parte degli episodi, e li ha girati tutti interamente, si “respira” ovunque, ed è, come sempre, un piacere per gli occhi e per le orecchie.
Non solo regia e sceneggiatura, ma anche la colonna sonora, sono gli elementi più affascinanti della serie.
Fort Green resta il quartiere dove viene ambientata la storia, una Fort Green decisamente diversa da quella ritratta nel 1986, ma forse addirittura più affascinante.
Le ambientazioni, interne ed esterne, esprimono al meglio l’atmosfera del quartiere, piccolo gioiello di Brooklyn, già location di Girls della Dunham, stavolta caratterizzato però quel tratto afro che la rende insuperabile.
Gallerie d’arte, caffetterie, grandi loft in mattoncini e i tipici palazzi marroni di quella zona di New York, fanno di Fort Green il quartiere perfetto per raccontare la storia di Nola, tra mostre, passeggiate sull’East River, e sesso bollente.
New York in She’s Gotta Have It è più bella che mai, e Spike Lee le rende giustizia come soltanto lui sa fare, ma non si ferma lì.
La sua scrittura diventa più matura e vera nel corso degli episodi che parlano di gentrification, questione razziale, Donald Trump.
C’è volontà di rivalsa, di giustizia e affermazione dei diritti delle donne nella serie, forse molto più che in altre serie femminili.
Spike Lee riesce con dieci episodi a toccare tutti gli argomenti che più stanno a cuore alla comunità afroamericana di Brooklyn e lo fa in maniera fedele, vera, utile. Racconta la società di oggi, senza mezzi termini e lo fa con estrema naturalezza, ieri come oggi.
La sigla d’apertura è composta da una meravigliosa carrellata di fotografie che ritraggono gli abitanti di Fort Green, di qualsiasi classe sociale, negli angoli più belli del quartiere.
La colonna sonora spicca e risplende nell’arco delle dieci puntate, tra jazz e soul, in una sequenza armonica di brani indimenticabili che arricchiscono una regia già di per sé perfetta.
Ma non finisce qui, e per non lasciare nulla al caso, Spike Lee alterna, alle scene della serie, brevi frame in cui mostra le copertine dei vinili da cui sono tratti i brani, e strizza l’occhio allo spettatore più esigente che, mentre guarda She’s Gotta Have It, non ha così neanche bisogno di aprire Shazam per capire quale capolavoro del jazz stia ascoltando.