A sedici anni volevamo urlare la nostra rabbia contro il mondo, soffrire in silenzio, picchiare e amare violentemente.
Volevamo essere notati, amati, capiti. Volevamo sentirci parte di un qualcosa di grande, enorme.
Qualcosa capace di proteggerci da tutto quel dolore, che in futuro, sapevamo che la vita ci avrebbe riservato.
Parecchi di noi sono stati cresciuti con la convinzione di dover essere i più belli, i più bravi, i più socievoli. I più atletici e i più alla moda.
Quelli con tanti amici. Quelli che non devono mai farsi vedere da soli in corridoio.
O che non devono saltare una festa o una partita.
L’adolescenza è un limbo, una sorta di “non luogo” dove, troppo giovane, insicuro e inesperto, non sai decidere chi o cosa vuoi essere.
O almeno chi sembrare. E ignori che, nonostante l’età e l’esperienza, in fondo sarà sempre così.
Anche quando sarai “grande”, perché pochi fortunati riusciranno davvero a trovare un loro posto nel mondo.
L’adolescenza è un luogo buio e fumoso, dove cerchi di trovare uno spazio sicuro in cui muoverti, senza destare troppa attenzione, senza disturbare. È la stanza da cui vorresti osservare e studiare l’umanità, senza essere notato, sperando di capire qualcosa in più della vita o di chiarirti le idee e smetterla di sembrare inadeguato e fuori posto.
Siamo stati tutti teenager, con le nostre paure e le nostre insicurezze.
Tutti abbiamo avuto timore o fretta di crescere.
Tutti siamo stati trascinati a riva e a largo dalla marea incessante dei sentimenti contrastanti tipici di quell’età. Dalle critiche, le offese impercettibili dei nostri coetanei, genitori o professori.
Una frase, una foto, un pettegolezzo: tutto ha un peso a sedici anni.
Tutto può diventare una lama tagliente.
Tutto può trasformarsi in veleno in un solo istante.
E certe volte, quel veleno resta nelle nostre vene, e scorre lento, inesorabile, finché non diventiamo grandi.
Perché alla fine, tutti cresciamo, e in un modo o nell’altro, tutto quel dolore, quell’inadeguatezza, dobbiamo seppellirli sotto le “cose dei grandi”, come il lavoro, la famiglia, la salute, e provare a far finta che non ci siano più.
E quelli di noi più determinati, spesso ce la fanno davvero, a dimenticarsi tutto intendo, o semplicemente a voltare pagina e a fingere che tutta quella sofferenza sia sparita.
Altri si rifugiano in un horror vacui incessante, per tenere la mente impegnata in altro e dimenticarsene.
Altri ancora, infine, sentono quelle cicatrici sulla pelle tutt’oggi: sanno che sono lì, da qualche parte in fondo alla propria anima, e che prima o poi verranno fuori, inaspettatamente oppure no, nessuno può dirlo.
E c’è chi, tutta quella solitudine che da adolescente respingeva con terrore, oggi la tiene stretta a sé, come fosse una zona sicura in cui rifugiarsi quando la vita si fa più dura del previsto.
Una comfort zone in cui nascondersi, come da ragazzini ci chiudevamo nella stanza con la musica a tutto volume per non sentire nessuno.
Adolescenti e bullismo, cyberbullismo, stupro, depressione, suicidio: questi i temi al centro 13 Reason Why, serie originale Netflix tratta dal romanzo young adult di Jay Asher, psicologo ed esperto di letteratura per ragazzi.
Ma Tredici (questo il titolo in italiano) è anche e soprattutto un inno contro la solitudine e l’indifferenza: Hannah Baker si sacrifica per diventare il manifesto contro ogni forma di violenza e isolamento subito dai suoi coetanei.
La sua storia, comune a tanti adolescenti ovunque nel mondo, è un pugno nello stomaco, una ferita che brucia.
È una ragazzina di sedici anni come molte altre, forse non la più carina, ma di certo una in grado di attirare l’attenzione dei ragazzi della scuola.
È ingenua, ironica, a modo suo provocante. Basta un niente, una foto su Facebook, un pettegolezzo di troppo, e Hannah diventa quella facile, quella con cui divertirsi, quella da trattare come una poco di buono perché l’unico peccato che continua a commettere, è cadere in quella ostinata ingenuità che la contraddistingue.
Finché un giorno Hannah non ce la fa più, e decide di darci un taglio, in tutti i sensi.
Si trafigge i polsi nella vasca da bagno, mentre i genitori sono al lavoro, e si abbandona al silenzio.
Accoglie la morte come l’estrema liberazione da umiliazioni, sofferenze e solitudine.
Esteticamente e tecnicamente, 13 Reasons Why non è la serie perfetta: è acerba, grossolana in alcuni passaggi, a tratti prolissa nella sceneggiatura.
Allo stesso tempo è però una serie genuina, intensa come poche altre, capace di riportare a galla i nostri ricordi di adolescenti, soprattutto quelli più brutti, e sbatterceli in faccia senza delicatezza alcuna.
Descrive con violenza emotiva ogni sgarbo, torto di quegli anni, e non nasconde una delle verità più innegabili di sempre: i teenager sono soli, spaventati, insicuri. Ma allo stesso tempo, possono essere anche cattivi, superficiali e pericolosi, nonostante faccia comodo pensare che non sia realmente così.
La serie di Netflix indossa l’abito del teen drama, ma solo all’apparenza: nonostante ci siano molti stereotipi del genere, vince laddove riesce a discostarsene per adoperare una denuncia socio-psicologica ben definita e necessaria. Una critica profonda e senza riserve a genitori e professori. Una fotografia cruda e sincera di quegli adolescenti crudeli e aridi.
La storia di Hannah, seppur esasperata in alcune situazioni, è una storia comune, vissuta direttamente o indirettamente da molti di noi.
È la storia che non vorremmo mai che vivessero i nostri figli.
Personalmente, è la storia che avrei voluto che qualcuno mi raccontasse quando avevo sedici anni. Per cavarmela meglio, per soffrire meno. O anche soltanto per prepararmi al peggio.